«Ci vediamo in Piazza Corridoni?»

 «Corridoni?»

«All’Inculato»

«Ah sì, ci vediamo lì»

No, non me lo sto inventando. Questa è stata una delle mie prime e brevi chiamate fatta con un’amica durante il primo anno di università per mettermi d’accordo su dove incontrarci di sabato sera.  Ma nel corso dei miei anni “goliardici” di studi, sogni e incertezze sul futuro, mi è capitato più e più volte di origliare conversazioni simili, soprattutto in attesa dell’autobus mattutino che mi portava alla facoltà di giornalismo in Strada d’Azeglio. In fondo, chi non ha mai usato almeno una volta questo ridicolo e svilente epiteto per indicare più rapidamente piazza Corridoni, quel tratto di cemento e cavi elettrici che si snoda tra Strada D’Azeglio e Strada Bixio? Lì, però, su quello svincolo asfaltato sul quale si affacciano fruttivendoli, tabaccherie e negozietti di scarpe, si erge qualcosa di più di una battuta goliardica o di una scorciatoia linguistica. Lì c’è un monumento ai caduti in onore di Filippo Corridoni, politico, combattente e giornalista italiano morto all’acerba età di 28 anni. Quante volte ci passiamo di fianco senza neanche sollevare lo sguardo su quella statua «superba di movimento ed espressione» – così la definì Mussolini in persona – che ha cristallizzato in quella tragica posa di muscoli contratti la morte di un eroe di guerra deceduto per la sua patria? Quante volte lasciamo cadere come ridicoli omaggi cartacce e mozziconi di sigarette ai suoi piedi come fossero bouquet di fiori per commemorare la sua morte? Ma soprattutto…quante volte ci appropriamo di uno spazio rinominandolo, senza nemmeno chiederci cosa stiamo cancellando nel farlo? Incuranti di una storia che ci appartiene, di un passato che ha forgiato il nostro presente, ecco che apriamo una voragine di dimenticanza. E no, Piazza Corridoni non è un caso isolato di questa damnatio memoriae giovanile. Insomma, basta fare un breve giro a piedi nei quartieri più frequentati dagli studenti per scoprire che mezza Parma è stata ribattezzata, rimodellata sulle forme di una città che si evolve e si trasforma e, molto spesso, si degrada.

Via D’Azeglio → “La via dei bar”

Massimo D’Azeglio (1798-1866), politico risorgimentale, scrittore e artista, oggi vive – a sua insaputa – nei racconti del giorno dopo: «Oi, io sto arrivando per le 15:15. Ci vediamo in d’Azeglio? Magari ci becchiamo lì, dove ieri sera quei tipi si sono presi a mazzate». 

Autore di romanzi storici –come “Ettore Fieramosca” (1833) – e marito di Giulia Manzoni, figlia di Alessandro Manzoni, D’Azeglio ci ha lasciato in eredità l’idea di un’unificazione pacifica e graduale, elemento distintivo di quello che fu il nostro approccio risorgimentale post-bellico. La sua memoria riverbera in quella lunga arteria che attraversa la città e nel piccolo e intimo cinema d’autore che porta il suo nome. Per molti studenti, però, D’Azeglio è semplicemente sinonimo di kebabbari, spritz, copisterie a poco prezzo e affollamenti serali. Quella via ornata da chiese, complessi bibliotecari e dalle membra robuste dell’Ospedale Vecchio -punto di riferimento di deboli e malati fino al 1929- e un tempo percorsa da intellettuali, ora viene attraversata da chi cerca solo un posto dove sedersi con la birra o con la pizza più economica. E così, la storia viene sommersa dal chiacchiericcio da marciapiede.

Piazzale Santa Croce → “La piazza della birra”

Anche qui, il nome ha qualcosa di sacro. Ma per gli studenti, è la piazza del venerdì sera, quella dove sostano monopattini elettrici esausti e dove ci si siede a cerchio con bottiglie di alcolici e playlist condivise su Spotify. Pochi sanno che la chiesa di Santa Croce è una delle più antiche di Parma, costruita nel XII secolo per ospitare una reliquia – un frammento della croce di Gesù Cristo portato da un cavaliere di ritorno da una crociata – e punto di riferimento per i pellegrini che percorrevano la Via Francigena. Sebbene parte del patrimonio culturale cittadino, nel vocabolario studentesco “Santa Croce” suona più come un’ironica bestemmia che come un riferimento spirituale.

Barriera Repubblica → “Il confine”

Per alcuni studenti fuori sede e non, Barriera Repubblica è il punto in cui la città cambia volto. È “il confine”, dove finisce la Parma universitaria e inizia quella dei “veri parmigiani” – forse con la piccola eccezione del centro commerciale “La Galleria” (ex Barilla Center) ancora animato da catene di fast food e negozietti di giochi, vestiti e profumi, oltre che luogo spesso prospero di risse e incidenti. Storico punto di accesso alla città, anticamente conosciuta con il nome di Porta di San Michele, una delle cinque porte medievali d’ingresso a Parma, oggi si identifica nel: “Oi, tu dove sei? Alla fine non mi sono spostata, sono ancora al confine, ti sto aspettando. Mi avvicino al burger king» così mi scrive la mia coinquilina F., 30 anni. Nel 1812, con l’annessione del Ducato di Parma all’Impero francese, venne però trasformata in una monumentale barriera che fungeva da punto di riferimento per controlli fiscali e doganali. Ideata con lo scopo di indebolire l’economia estera e far fruttare quella francese, evitando qualsivoglia forma di contrabbando, ebbe però un risultato catastrofico per gli imprenditori parmensi. Ad oggi ciò che rimane è più un riferimento topografico da Google Maps che un elemento identitario. È il margine tra due mondi che si sfiorano, ma raramente si parlano.

Il Campus → “La bolla”

Chiedetelo a qualsiasi studente di Ingegneria, Scienze o Farmacia: il Campus è “la bolla”. Un luogo lontano, separato, quasi una Parma a parte. Tra gli anni ’70 e ’80, l’Università di Parma acquisì terreni agricoli a sud della città, trasformandoli in un ampio polo dedicato alla didattica e alla ricerca scientifica. Grazie anche all’importante contributo economico di Pietro Barilla, l’area continua ancora oggi a ospitare numerosi corsi di area scientifica, con aule studio, laboratori e spazi ricreativi all’aperto. Questo grande spazio, sospeso tra natura e scienza, sembra non solo offrire benessere e armonia a chi lo vive ogni giorno, ma anche “proteggere” dalla frenesia cittadina: la movida del centro, infatti, resta a quasi quattro chilometri di distanza. Un’area iperfunzionale, ma quasi priva di anima urbana. Ci si va, si studia, si torna. Nessuno ci resta, nessuno la sente davvero “sua”. Anche in questo caso, non voglio esimermi dall’essere sincera: condivido pienamente la percezione che molti giovani hanno di quest’area, così sospesa e quasi “fuori dal tempo”. Al primo anno di università mi ritrovai a risiedere in una zona a pochi passi dal Campus – pur frequentando, paradossalmente, una facoltà umanistica vicina al centro – e della quale conservo un ricordo malinconico per via del silenzio profondo che avvolgeva (forse asfissiava) le mie giornate segnate da studio e solitudine. Il fine settimana, raggiungere i miei amici in centro diventava una sfida contro tempo e spazio – e sì, trovare posto su quegli autobus era un evento raro, quasi mitologico – che, il più delle volte, finivo per perdere.

Insomma, aldilà di nostalgie e moralismi. Questi nomi alternativi, spesso volgari o semplicemente superficiali, non sono solo espressioni di creatività studentesca ma anche la spia di un rapporto un po’ troppo “avanguardista” con la città. Molti di noi vivono Parma come una tappa, non come una casa. Camminiamo nei suoi spazi ma non li conosciamo davvero. Rinominarli, forse, è un modo per sentirli più nostri ma il rischio è che, nel farlo, perdiamo il contatto con le storie che li hanno resi ciò che sono e ciò che oggi siamo noi. Forse, a volte, basterebbe semplicemente alzare lo sguardo dal cellulare, staccarsi da quegli schermi magnetici, e osservare ciò che ci circonda. Cartelli didattici, pannelli esplicativi -chiamateli come volete – ce ne sono ovunque, disseminati per la città. Offrono piccole pillole di storia, pronte a raccontarci a chi o a cosa siano dedicati monumenti, palazzi e statue. E tutti, in fondo, ci aiutano a rispondere a una domanda tanto semplice quanto fondamentale: chi c’era prima di noi?

  •  Althea Squiccimarro

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